marcota ha scritto:emiliano ha scritto:marcota ha scritto:
A dir la verita', proprio in molti paesi nordici il PVC e' stato bandito per legge a causa del rilascio di elementi tossici volatili, specialmente accentuato nei primi anni di vita del profilo
dove hai trovato queste informazioni?
Leggiti qualche mio vecchio post, tipo:
http://www.arredamento.it/forum/viewtopic.php?p=654514
Oppure te ne allego altri, ne puoi trovare un sacco su internet, sta di fatto che non parlo solo di cose lette su internet: ho un'amica che fa proprio questo genere di analisi chimiche in un laboratorio di ricerca della commissione europea e mi ha fatto vedere tante belle "cosettine".... ahime', a partire dai giocattoli made in China per finire ai contenitori alimentari...
http://www.greenpeace.it/inquinamento/pvc.htm
http://www.lapelle.it/storia/pericolo_giocattoli.htm
http://www.aamterranuova.it/article1697.htm
Purtroppo la logica di mercato (interessi economici) la fa da padrona e zittisce quel che da' fastidio
Scusami tanto, ma invece di fare del terrorismo gratuito perché non ti informi meglio?
http://home.scarlet.be/chlorophiles/It/ ... s4.It.html
Intervento di Gerhard Gans
Vice Chairman of “Toxicological Working Group” in ECPI
Il tema del mio intervento riguarda gli effetti sulla
salute dei plastificanti. Il rappresentante di Greenpeace ha sollevato un aspetto molto
importante, quello della esposizione, ma per valutarne il rischio reale occorre, da un
lato, quantificare l’esposizione reale al rischio e dall’altro lato descrivere chiaramente il
profilo di tossicità per andare a vedere esattamente dove si collocano i “livelli-effetto”.
Gli ftalati non possono essere considerati cancerogeni umani. E’ vero che in uno
studio americano del 1980, effettuato su roditori che erano stati assoggettati ad una
dieta alimentare con alti dosi di DEHP, l’esito finale è stato l’insorgenza di
epatocarcinoma. Ed è vero che, sulla base di questo studio, l’Agenzia Internazionale
per la Ricerca sul Cancro, la IARC, ha classificato il DEHP tra le possibili sostanze
cancerogene per l’uomo. Ma questo avveniva all’inizio degli anni ’80. Cosa è
successo dopo?
Con studi successivi sono state accertate altre
cose che proverò a riassumere. La maggior parte delle sostanze chimiche
cancerogene per l’uomo e gli animali provocano il tumore attraverso l’interazione con
il materiale genetico delle cellule, ma nel caso degli ftalati è stato dimostrato che essi
non si legano con il DNA e non sono perciò genotossici. In secondo luogo, è stato
osservato che la somministrazione per via orale dei plastificanti ed altre sostanze
chimiche ai roditori provoca la proliferazione nel fegato di corpuscoli citoplasmatici,
noti come perossisomi, che si ritiene contribuiscano alla formazione dei tumori del
fegato. Tuttavia, la somministrazione di plastificanti a specie diverse dai roditori, come
ad esempio gli uistiti, (le scimmie platarrine che vivono nelle foreste amazzoniche e
che hanno il metabolismo più simile a quello dell’uomo) non comporta una
proliferazione di perossisomi. E a questo proposito va aggiunto che alcuni medicinali
ipolipemizzanti, che causano invece questa proliferazione nei roditori, vengono
utilizzati da molti anni senza effetti indesiderati sull’uomo. Queste differenze sono
state evidenziate anche in esperimenti in-vitro che hanno confermato che gli ftalati
favoriscono, sì, la proliferazione nelle cellule epatiche dei ratti e dei topi, ma non in
quelle dell’uomo.
Gli studi più recenti, inoltre, hanno interessato
topi che, attraverso l’ingegneria genetica, sono stati fatti nascere privi del recettore
responsabile della proliferazione dei perossisomi. Sia pure sottoposti a potenti agenti
di proliferazione, questi topi non hanno subìto un ingrossamento del fegato e in essi
non sono stati osservati tumori epatici. Sulla base di queste differenze di risposta tra
diverse specie, e considerando l’elevatissima esposizione negli esperimenti sugli
animali, si può oggi dire che gli ftalati non costituiscono un rischio effettivo sull’uomo.
Questa conclusione è stata recepita anche dalla Commissione Europea che, con una
decisione del 25 luglio 1990, ha stabilito che il DEHP non va classificato come
sostanza cancerogena per l’uomo. Nel 1995, infine, la IARC ha pubblicato un rapporto
sul processo di proliferazione dei perossisomi nel quale si afferma che gli effetti
epatocancerogeni si possono considerare trascurabili per l’uomo. In merito agli effetti
sulla riproduzione, si è scoperto che alcuni ftalati, a dosi molto elevate, possono avere
conseguenze sui ratti e sui topi. In seguito a somministrazione di ftalati per via orale si
sono osservati effetti teratogeni e tossici per l’embrione. Ma la possibilità di estendere
questi effetti all’uomo è limitata, sia a causa del livello delle dosi, sia sulla base delle
notevoli differenze nella risposte delle due specie.
La Commissione della Comunità Europea ha
esaminato questi studi ed ha concluso che, considerando l’atrofia testicolare come il
PVC e Ftalati: conoscenze, ricerca e garanzie per la tutela del consumatore e dell’ambiente
pagina 13
maggior sintomo indicatore di danni riproduttivi, è il ratto la specie maggiormente
soggetta a questo effetto. Il livello al di sotto del quale non si registrano effetti a carico
dell’organismo su testicoli, epididimo e peso della prostata o effetti sul sistema
endocrino causati dal DEHP in animali maschi in seguito a somministrazione orale,
viene considerato 69 milligrammi/kg di peso corporeo al giorno.
Questo livello è di numerosi ordini di grandezza
superiore rispetto all’esposizione calcolata per l’uomo e presente nell’ambiente. Infatti,
un calcolo realistico e prudente dell’esposizione giornaliera media del DEHP risulta di
5 microgrammi/kg di peso corporeo al giorno. Il raffronto tra i due dati evidenzia un
margine di sicurezza per la popolazione di un ordine di grandezza pari a 14mila volte.
Considerando la notevole differenza di risposta tra i roditori ed i primati, il fattore di
sicurezza è in realtà anche maggiore. Se si suppone che il DEHP va a costituire da
solo circa il 50% del consumo totale di ftalati, allora l’esposizione totale agli ftalati
risulta intorno a 10 microgrammi/Kg/die e il margine di sicurezza pari a 7.000. I
primati, in effetti, appaiono più resistenti agli effetti sulla riproduzione. Un recente
studio sul DEHP negli uistiti, effettuato in Giappone, mostra che con dosi ripetute fino
a 2500 mg/kg di peso corporeo per 13 settimane non si sono osservate differenze nel
peso dei testicoli e della prostata; non vi sono state alterazioni istopatologiche nei
testicoli, nell’epididimo, nei dotti seminali o nella prostata; non si sono registrate
alterazioni morfologiche nelle diverse cellule del testicolo; non sono state rilevate,
infine, variazioni nei valori di testosterone o estradiolo presenti nel sangue.
Un altro campo di indagine sugli ftalati riguarda
gli effetti ormonali. A causa del loro diffuso utilizzo, gli ftalati sono uno dei gruppi di
sostanze chimiche maggiormente oggetto di analisi sugli effetti estrogeni, tramite sia
studi in-vivo, ampiamente sperimentati, sia test in-vitro, messi a punto più di recente.
Per quanto riguarda i primi, gli studi più recenti mirati alla ricerca di effetti estrogeni
riguardano una serie di assay uterotrofici e di corneificazione delle cellule epiteliali
della vagina. Si tratta di indagini che rilevano eventuali alterazioni degli organi
riproduttivi delle femmine dei ratti che avvengono attraverso processi determinati dagli
estrogeni. Questi studi hanno dimostrato che tutti gli ftalati di uso più comune non
provocano effetti estrogeni ed hanno inoltre accertato che i principali metaboliti degli
ftalati, ovvero i monoesteri, non hanno attività estrogena. Inoltre, altri studi
multigenerazionali condotti sulla fertilità non hanno fatto registrare risultati attribuibili
alla modificazione ormonale. Per quanto riguarda i test in vitro, questi studi servono
esclusivamente a segnalare quali sostanze andranno sottoposte ad ulteriori ricerche
attraverso studi in-vivo. Non si conosce, pertanto, l’effettiva corrispondenza dei
risultati di questi test alla realtà e i dati che si ricavano, inoltre, risultano soggetti a
considerevoli variazioni da un laboratorio all’altro. Tuttavia, ragionando sui dati
disponibili, si può affermare che la maggior parte degli ftalati si dimostra inattiva nei
test in vitro. Alcuni di essi, come il DBP e il BBP fanno registrare un risultato
leggermente positivo che indica una potenziale attività estrogena. Ma in altri studi
questi stessi ftalati sono invece risultati privi di effetti estrogeni.
A conclusione del mio intervento vorrei ricordare
che è necessario distinguere tra rischio e pericolo. Si usa infatti una descrizione
qualitativa per valutare la potenzialità di un pericolo, mentre per i rischi è necessario
rapportarsi ad una valutazione quantitativa delle probabilità di accadimento riferita alle
dosi utilizzate. Voglio dire che è molto importante valutare l’effettiva situazione di
esposizione. Se ci basiamo su questo criterio si può concludere che una esposizione
a basse concentrazioni, senza alcun potenziale di bio-accumulo, non comporta alcun
rischio per gli essere umani e per l’ambiente. In tema di giocattoli, sono state
pubblicate tre relazioni che parlano di possibili livelli di rischio per i neonati o i bambini
piccoli, ma queste indagini non sono state confermate da altri studi effettuati in Italia e
PVC e Ftalati: conoscenze, ricerca e garanzie per la tutela del consumatore e dell’ambiente
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nei Paesi Bassi. In quest’ultimo Paese, anzi, è stato contestata la validità della
tecnica utilizzata in questi studi per una valutazione specifica di questi aspetti.
Riguardo allo studio effettuato in Germania,
citato da Greenpeace, aspetto di avere la documentazione completa per poterlo
valutare. Tuttavia, per quanto ne so, nello studio si è fatto riferimento ai valori di TOC
(Carbonio Organico Totale) con i quali vengono valutati i livelli di inquinamento anche
di altre sostanze. Se vogliamo collaborare è necessario stabilire un metodo comune
accettato dalle parti perché attualmente in Europa non esiste uno standard
armonizzato per l’effettuazione di questi test. In questa direzione si sta muovendo la
Commissione Europea che ha dato mandato perché venga definito un metodo per la
definizione di questi studi sulla migrazione in cui vengano simulati anche gli effetti
della masticazione. Ci auguriamo che in questo modo si possano superare in futuro i
problemi che vengono sollevati oggi, ma voglio ribadire che tutti i dati disponibili
sull’esposizione, scaturiti da numerosi studi condotti negli ultimi anni, già da ora non
offrono nessuna prova che esista un rischio effettivo per i nostri bambini