La Redazione Consiglia

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#2146
23 dicembre 2009
di Gian Carlo Caselli

L’amore vince. Da buon italiano, cerco anch’io di convincermi che questa è la formula magica per risolvere tutti i problemi del nostro paese. Ma ho dei limiti precisi, e faccio ancora fatica. Per di più, invece che amore, intanto provo un po’ di invidia. Riprovevole sentimento, soprattutto se indirizzato a dei colleghi: Antonio Ingroia e Armando Spataro. Alimentato mio malgrado da alcuni interrogativi surreali che mi ronzano in testa. Perché questi due (magistrati onesti, capaci e coraggiosi) sono stati attaccati – con vigore senza precedenti – e io no? Se loro sono nel mirino perché fanno il proprio dovere, e lo fanno bene, vuol dire che io – se mi lasciano in pace – il mio dovere non lo so fare? Per loro una gragnuola di spietati rimproveri al Csm, in Parlamento, nei salotti televisivi più celebrati e per me invece niente? Immodestamente, pensavo di aver dimostrato (come tanti altri, tra i quali appunto Ingroia e Spataro) di non essere un tipo “scaltro”, cioè pronto a riconoscere in teoria la pericolosità della mafia e del malaffare nelle sue varie connessioni con pezzi del potere politico ed economico, ma pronto altresì – nella prassi quotidiana – a trascurare tali connessioni. E i vari Vespa, Sgarbi, Liguori e Iannuzzi ecc. ne hanno talora tratto conseguenze per me piuttosto spiacevoli. Ma ora l’essere… ignorato mi fa venire qualche dubbio. In che cosa avrò sbagliato? Mi rivolgo a tutti coloro che volessero riprendere gli “argomenti” del consigliere del Csm avv. Anedda o del parlamentare onorevole Cicchitto: non dimenticatemi! Non fatemi questo torto! Ne va della mia autostima!
http://antefatto.ilcannocchiale.it/glam ... blog=96578
omnia munda mundis

#2147
Il sacrificio sull'altare del Capo: l'amore secondo Berlusconi di Furio Colombo

La deferenza fatta sistema di potere. A senso unico.

Triste questo anno in cui ogni opposizione, a meno che non sia un inchino, è odio; il lavoro merce avariata abbandonata sui tetti delle fabbriche grandi e piccole; la conoscenza scientifica umiliata al punto da mandare via con un solo gesto di maleducata noncuranza tutti (tutti) gli scienziati dell’ecologia italiana (l’incredibile caso Ispra); un nuovo modo di gestire le imprese e fare cassa subito vendendo e rivendendo lo stesso centro produttivo a proprietari sempre più ignoti che smettono di pagare mentre si lavora e si produce.

Oppure sono la strana figura di Marchionne-Fiat, che dopo avere audacemente comprato un pezzo d’America e avere seriamente cercato d’incorporare un pezzo di Germania, fa sapere che deve chiudere per dura necessità una fabbrica in Sicilia (Termini Imerese) dove tutto funziona alla perfezione, liberandosi senza spiegazioni di un pezzo di civiltà oltre che di produzione.

I sondaggi ci fanno sapere che folle immense di italiani approvano, dunque amano Berlusconi a livelli che rasentano il 100 per cento. Ma intanto chi può svende, chi sa sposta la produzione fuori dall’Italia, e la stessa gente di Berlusconi tratta come zavorra da cui alleggerirsi centri strategici di lavoro, di ricerca, di attività scientifica, chiude ospedali, smette di dare i fondi necessari alla polizia, abbandona persino il sostegno scolastico ai bambini disabili, si trincera dietro i fumogeni delle social cards mai ricevute dai più poveri, dietro il sostegno promesso ma non disponibile per i precari e i nuovi disoccupati (una massa che, prima non c’era mai stata). E ti annuncia senza imbarazzo l’inizio di un’era nucleare immensamente costosa (oltre che immensamente pericolosa) e manda alcuni uomini con una scavatrice e il piccone a iniziare i lavori per il faraonico Ponte di Messina, la città dove basta la pioggia per abbattere una parte di strade e di ponti esistenti, l’isola in cui ogni estate manca quasi del tutto l’acqua.

È accaduto questo. Silvio Berlusconi, con la sua famosa “discesa in campo” si è gettato sul Paese Italia come la donna svizzera che, nella notte del 24 dicembre, si è gettata sul Papa. Berlusconi, con la stessa presa ossessiva, ha trascinato con sé a terra lo Stato, ha rotto il femore dei media, e ha continuato a gridare che lo fa per amore. Infatti le due frasi con cui tutto comincia, in Italia e in San Pietro, sono quasi identiche: “Questo è il Paese (o il Papa) che amo”. La donna svizzera è stata subito affidata alle cure dei sanitari. Berlusconi, forse a causa del peso immenso della sua ricchezza e del suo altrettanto immenso conflitto d’interessi, continua a restare aggrappato all’Italia, la trattiene a terra e rende impossibile ogni equilibrio da quindici anni.

Per avere un’idea visiva dell’Italia in questi quindici anni, immaginate il Papa trattenuto a terra, accanto al cardinale col femore rotto, dalla donna che - per amore - non molla la presa, mentre gli altri - i cittadini di là delle transenne - non potendo fare altro, alla fine applaudono. E più la presa al collo del Papa continua più si infittiscono gli applausi.

Ormai è tipico, in ogni evento triste o lieto, dal funerale di una persona nota agli spettacoli di Fiorello. Gli applausi sono il solo gesto attivo d’intervento della folla. La folla è passiva fino a quando qualcuno arriva in soccorso.

Con il Papa è accaduto. Berlusconi invece è ancora aggrappato all’Italia. Per amore, dice. Uno strano amore. Per spiegarlo non ci serve la rappresentazione narrativa o artistica di questo grande sentimento. Ci serve la storia. Ricordate l’Aga Khan, prima che i suoi figli e nipoti diventassero intraprendenti impresari della Costa Smeralda? La tradizione voleva, nella vita di una setta islamica detta “Ismailita”, che ogni anno il capo fosse pesato in pubblico, in una grande cerimonia. I fedeli avevano il dovere - ma anche il privilegio - di versare una quantità di oro pari al peso del loro capo spirituale. È avvenuto fino agli anni Cinquanta.

Berlusconi, che di grandi affari in Sardegna sa molto, deve avere tratto ispirazione da quell’evento. Il punto che Berlusconi ha colto è che quando si parla di amore e di partito dell’ amore non si discutono i sentimenti del capo, che continua a gridare “vergogna” contro ogni accenno di dissenso. Quando si dice amore si fa riferimento ad un tributo che il capo si aspetta di ricevere dai cittadini in proporzione al suo peso. L’annuncio di quel peso trabocca da tutta la sua propaganda. Viene annunciato in continuazione sia dal volto triste del portavoce Capezzone, penitenziere che non sconta colpe e non tollera peccati, sia dalla concitazione quasi festosa del portavoce Bonaiuti quando proclama che questa è l’ultima occasione per mettersi in regola e amare, persino se prima odiavi.

Stretta in questa morsa ben sostenuta dal controllo dei media e dal quaresimale Minzolini-Tg1, la politica italiana non può essere che un’offerta d’amore. Sale (deve salire) da tutti noi verso l’alto. Ci viene anche indicata un’unica istituzione degna di quell’amore, “il Presidente”. Per raggiungerlo possiamo anche saltare sopra le transenne delle altre istituzioni, come la signora svizzera. L’importante è che “questo amore” sia “one way”. Lui non lo deve ricambiare. Deve solo frequentemente essere pesato (e aumentare il suo peso politico e mediatico per avere più amore) dalla sua corte politica. Tutto il resto è odio.

Ovvio che abbiamo descritto un disturbo mentale. Quello che non sappiamo è se i confini di questo luogo in cui si ambienta il disturbo mentale che chiamano “amore” coincidano, come a volte sembra, con i confini del Paese. O se vi siano ancora zone libere in grado di distinguere la malattia dalla politica.
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#2148
I PALLONCINI ROSSI - di Mimmo Calopresti

Gli operai non sono tornati, anzi. Lassù, sui tetti, si sono isolati lontano dallo scontro pubblico.

Lontani, altissimi nell’alto dei cieli, direi più vicini a Dio che ai loro simili. Per raccontarci la loro crisi perenne, che qualche volta si acuisce in maniera drammatica – come succede in questo momento – alcuni lavoratori si sono allontanati da noi. Sono saliti in alto.

Hanno cominciato questa estate gli operai dell’Innse, che si sono rifugiati su un carroponte. Gli ultimi, per adesso, sono stati quelli della Yamaha, appena scesi dal tetto della fabbrica di Lesmo, all’aria aperta, dopo aver affrontato il gelo polare di questi giorni di festa. In questi pochi mesi le ascese sono state tante, si sono moltiplicate, da nord a sud. Salgono sui tetti gli operai con il lavoro a rischio o con la certezza del licenziamento, con in tasca la lettera che annuncia la cassa integrazione, con la fabbrica che sta per essere venduta a non si sa bene chi o con lo stabilimento in procinto di essere smantellato. Ma non solo operai: ora su quei tetti salgono anche i cenciaioli di Palermo che si battono per poter continuare a fare la raccolta differenziata, i ricercatori dell’Ispra, gli studenti de La Sapienza che protestano conto i tagli all’università, gli insegnanti precari di Benevento, i lavoratori con contratto a tempo determinato in scadenza del call center di Trapani.

ARISTOCRAZIA. Tutti si sono isolati, con dignità, senza scendere nell’arena del dibattito degli scontri verbali, delle manifestazioni che sfilano sul video davanti ai nostri occhi nelle nostre tristi serate televisive, si sono allontanati dal casino solito e confusionario dell’informazione, dicono poco e poco si fanno vedere, stanno semplicemente cercando di attirare il nostro sguardo verso l’alto, quello sguardo che solitamente ci neghiamo anche durante una passeggiata dentro le nostre città. C’è dignità, aristocrazia – oserei dire – in questa scelta. Una aristocrazia acquisita in tempi lontani, in tempi di battaglie importanti, tempi forse finiti per sempre.

Gli operai davanti ai cancelli della Fiat Mirafiori risucchiavano l’attrazione generale: quando entravano negli stabilimenti, nelle albe fredde e livide, trovavano gli studenti che andavano a volantinare e giovani rampolli della borghesia che li contemplavano come se avessero di fronte attori sublimi delle loro visioni rivoluzionarie. I cancelli di corso Traiano diventavano così la porta del tanto immaginato paradiso operaio. Quegli operai uscivano rincorsi nelle notti fredde dalle televisioni che volevano conoscere in anticipo ogni loro pensiero, ogni prossima mossa sindacale e, infine, avevano credito facile dai commercianti quando scioperavano per avere aumenti salariali: la loro ricchezza era ricchezza di tutti, erano il motore più potente del sogno collettivo di maggior benessere.

Poi un giorno tutto finì. Andare a lavorare alla Fiat – diceva mio padre – è avere un posto sicuro, la mutua e i regali a Natale, la possibilità di fare sport e d’estate andare al mare in fila, capitanati da belle signorine che ti portavano in pineta dopo aver fatto il bagno a Marina di Massa. Quel meraviglioso mondo si trasformò in incubo: ristrutturazioni, cassa integrazione, mobilità, decentramento, globalizzazione. Sempre più difficile la vita. Persi per sempre i padroni, quelli che intravedevi la mattina quando entravano nello stabilimento con la macchina dai vetri scuri ma di cui conoscevi bene ogni movenza.

Al loro posto, quando va bene, ora c’è una multinazionale oppure una società con sigle sconosciute e con sedi altrettanto sconosciute, i cui amministratori delegati percepiscono quegli stessi stabilimenti come pezzi di un puzzle da comporre con tasselli a costo sempre minore. Come erano fortunati i lavoratori della Fiat quando potevano andare in corteo sotto gli uffici di corso Marconi a Torino per urlare tutta la loro rabbia contro il padrone: lungo il viale risuonavano i cori “Agnelli, Agnelli vaffanculo”, e l’Avvocato li ascoltava, mentre li guardava dall’alto, dietro la finestra del suo ufficio. Ma quella era un’altra epoca, era il tempo del posto fisso. Poi il sogno del posto fisso svanì e cominciarono ad affermarsi gli ammortizzatori sociali, inutile medicamento di uno sviluppo industriale sempre più scassato, mentre il sogno viene provvisoriamente appaltato ai lavoratori stranieri, che, però, insieme al loro stupore di riuscire a mettere piede nel Paese dei reality – Paese che riesce a far diventare celebri tutti, dove una serata televisiva non si nega a nessuno – ci portano un bel po’ di casino, ci fanno sentire insicuri, sono sporchi e, se non stiamo attenti, ci rubano tutto.

D’altronde questa situazione il nord l’aveva già vissuta. I meridionali erano arrivati in massa a cercare lavoro e a portare problemi. E’ indimenticabile la lunga fila delle signore impellicciate che, sotto la sede de La Stampa, si affannavano a firmare un appello contro la prostituzione dilagante, molte di quelle donne erano madri dei ragazzi che si svegliavano alla mattina presto per andare a volantinare davanti alla Fiat. Poi, però, i meridionali si sono fatti il "censured", hanno mandato i figli a scuola e si sono comprati le case in periferia – quelle case che adesso si affacciano su un campo rom – e ora si incazzano: anche loro si mettono in fila per firmare appelli contro il degrado e contro quelle brutture, loro che sono nati davanti ai più bei panorami del mondo.

DOVE SONO LE FABBRICHE? Gli operai non interessano più a nessuno. Nessuno va più davanti alle fabbriche, nessuno sa più dove sono le fabbriche: ora per sapere dove è la Fiat Mirafiori, un tempo icona del lavoro operaio, ci si collega a Google Maps. Le televisioni arrivano in massa solo quando accade una tragedia. Alla ThyssenKrupp sono accorsi tutti per raccontare la tragedia piu assurda dei nostri tempi: cinque ragazzi perdono la loro vita nel tempio dell’acciaio lucido, parte di una multinazionale che, con i suoi prodotti, permette a tutto il mondo di vivere con agio, ma dove la loro vita non contava niente già da tempo.

Nessuno però pensa di andare nei cantieri, dove la vita dei lavoratori conta ancora meno e dove le assunzioni vengono effettuate qualche ora prima dell’attestato decesso. Gli intellettuali hanno escluso gli operai dal proprio immaginario e li hanno sostituiti con una poltiglia non ben definita di soggetti che difficilmente riusciranno ad affermarsi e diventare i protagonisti del prossimo futuro. Nessuno li vede più, nessuno li racconta più.

Ci vorrebbe forse il Pasolini del “poema dell’immondezza”, che negli anni ‘70 a Roma cercò di raccontare il primo sciopero dei netturbini. Ci vorrebbe il più grande attore italiano di tutti i tempi, Gian Maria Volontè, che cercò, in un Natale degli anni ‘70, di mettere una tenda in piazza di Spagna in solidarietà con la lotta dei metalmeccanici e che la polizia spazzò via in un attimo, nonostante la resistenza dei manifestanti. Di quei giorni è rimasto un film, “La tenda in piazza”, uno dei pochissimi film da regista che Gian Maria Volontè ha girato in un anno in cui rifiutava di fare film per occuparsi di qualcosa che lo facesse sentire utile a sé e agli altri.

Ci vorrebbe Ugo Gregoretti che con Omicron, un film di fantascienza, racconta l’alienazione della vita operaia con umorismo e grazia. Ci vorrebbero artisti e poeti per raccontare. Il neoralismo non è utile, forse serve solo per raccontare Gomorra, ma per riuscire a vedere quei palloncini rossi che sono volati là nel cielo, così in alto sui tetti, per farci alzare la testa ci vuole la poesia, quella poesia che è scomparsa per sempre nelle nostre vite, che abbiamo barattato con un po’ di benessere immediato e apparente. Ci vorrebbe tutta la forza di quella poesia.

Servirebbe anche a Termini Imerese: servirebbe un gesto poetico per risolvere quella situazione, non le pur sensate parole dell’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, non le trattative sindacali se pur doverose, non le promesse del ministro del lavoro, per non trasformare quello stabilimento, che era nato come un giardino in una prateria di disperazione, nell’ennesima cattedrale nel deserto. Per non rottamare ancora delle vite, per non dismettere anche quegli operai che hanno smesso di essere funzionali all’ennesimo piano di sviluppo industriale del sud. Ci vorrebbe un gesto poetico che trasformasse la Fiat di Termini Imerese da fabbrica di automobili che nessuno vuole più, in una fabbrica di utopie utili a tutti.
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#2149
BERLUSCONI E LA DITTATURA DELLE PAROLE di Pierfranco Pellizzetti

Tutti gli animali sono eguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Dal maiale Napoleone (dittatore della orwelliana Fattoria degli animali) al Napoleone di Arcore, la parola si conferma uno straordinario strumento di dominio dei corpi colonizzando le menti. Per cui la “neolingua”, forgiata da abili rimaneggiamenti e piegature dei significati verbali originari, diventa strumento di potere e arma da guerra.

Il suo scopo – descritto sempre da George Orwell nel celebre 1984 – non è solo fornire un mezzo espressivo a beneficio degli adepti che sostituisca la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. In questi ultimi tre lustri il dominio della parola è stato un punto di forza indiscutibile della strategia berlusconiana per la presa del potere. Cui gli avversari si sono supinamente accodati, finendo per giocare la partita sul terreno tracciato dall’avversario; pensando con le sue categorie linguistiche.

Si prenda l’orrida definizione del prelievo fiscale come “mettere le mani nelle tasche dei cittadini”. Insomma, uno scippo. Fin tanto che lo dicono un padroncino del Nord-Est, un fancazzista privilegiato che campa di rendita o un tribuno della neoborghesia possessiva lo si può capire (e magari deprecare o irridere). Tutt’altra cosa in bocca a un rappresentante del fronte riformista, che dovrebbe avere chiaro come le politiche distributive siano il fondamento del patto sociale welfariano, per assicurare quei servizi pubblici che Jürgen Habermas definisce “le stecche del corsetto della democrazia”.

Purtroppo quello del “mettere le mani in tasca” è diventato tormentone trasversale, con un particolare aggiuntivo: accredita la rivolta antifiscale cavalcata dalla Destra, non conquista un voto che sia uno alla Sinistra e – al tempo stesso – ne disamora la base elettorale tradizionale. Intanto i berluscones incassano e ringraziano; ridacchiando per l’assoluta dabbenaggine di questa opposizione.

Una strategia comunicativa vincente, che potresti pensare opera di menti eccelse. Ma non è così. Trattasi di prodottini originariamente aziendali, messi a punto all’inizio degli anni Novanta (già prima della “discesa in campo” di Forza Italia e del suo sponsor) nelle botteghe milanesi di consulenza, che vendono banalità infiocchettate con l’etichetta “comunicazione promopubblicitaria”.

Infatti, vivendo in quegli anni all’ombra della Madonnina, si percepiva l’intenso lavorio per costruire gli armamentari linguistici della prossima “discesa” non ancora annunciata. Gli anni in cui si progettò la trasformazione di “comunista” in una parola altamente emotiva quanto scissa dalla propria storicità, virata a sinonimo di generica “infamia ”: puro marchingegno deprecativo come “giudeo” in bocca al nazista.

“Giustizialista” perse ogni riferimento al Peronismo argentino diventando il marchio inquietante di un uso strumentale e vendicativo dell’azione giudiziaria. Le bubbole su “etica degli affari” e “propaganda etica”, con cui si turlupinavano i consumatori (se compri una mentina salvi un orso polare…), furono riciclate in propaganda politica all’insegna dell’amore (loro odiano, noi amiamo).

Nient’altro che l’ela borazione di propaganda mendace (tipo lo slogan “meno tasse per tutti”), studiata a tavolino dai cosiddetti “creativi” e senza nessuna attinenza con la realtà: tanto l’obiettivo è agire sulla sfera subliminale del potenziale acquirente.

Nel frattempo le sessioni di public speaking insegnavano alla manovalanza del boss l’arte del trasformare un dibattito in caciara. Ma anche opera mai smascherata e contrastata dalle controparti. Piuttosto inseguita e imitata.

Si narra che il Pds d’allora ingaggiò un guru della consulenza di marketing chiamato Klaus Davi (uno svelto giovanotto con la gommina nei capelli) per apprendere gli arcani dell’arte. E magari farsi spiegare l’inclita sentenza klausdaviana che la politica “è un fustino di Dash, non una borsa di Gucci”. Al di là del folklore (risibile o avvilente che sia), ciò che più interessa è prendere atto di quali siano i laboratori del pensiero che alimenta il regime berlusconiano: nient’altro – appunto – che semplificazioni consulenziali all’insegna della banalizzazione.

Non soluzioni, semmai trucchetti per impacchettare l’interlocutore; azzerare i problemi troppo difficili per essere risolti davvero. C’è la crisi economica? Si dipingano scenari color rosa, irreali ma anestetici. Il Parlamento crea problemi? Lo si riduca a timbrificio. I magistrati disturbano? Li si anemizzi finanziariamente e insieme li si delegittimi. Il Fatto Quotidiano o Micromega pubblicano verità sgradite? Li si demonizzi.

Insomma, solo cavatine (seppure altamente venefiche) contro ogni forma d’opposizione. Da qui la centralità della “neolingua”, funzionale all’acronimo TINA (there is no alternative). Seppure come questione rimossa.
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#2150
LA MANIPOLAZIONE DEL PAPA di Marco Politi (Il Fatto, 29-12-09)

Come il venditore accanto a un monumento, Berlusconi si è appiccicato a Papa Ratzinger per tutto il periodo di Natale.

In Vaticano Benedetto XVI ha preso con filosofia il ruzzolone della notte natalizia, mostrandosi di buon umore, anche al pranzo (blindato) condiviso domenica con i poveri della Comunità di Sant’Egidio. Per proteggerlo da imprevisti verrà rafforzata la vigilanza “in mezzo alla gente”, con gendarmi in borghese mescolati ai fedeli durante le cerimonie ufficiali. Ma niente mura di gorilla intorno al Papa.

D’altra parte, la collaborazione fra personale di sicurezza vaticano e Polizia italiana nell’opera di filtraggio preventivo con i metal detector si è rivelata finora efficace nell’impedire che in piazza San Pietro o in basilica venissero introdotte armi. Già da qualche tempo, comunque, il livello di allarme era stato innalzato durante gli spostamenti del pontefice a Roma e in Italia.

Più difficile è per il Vaticano arginare gli straripamenti e le manipolazioni di Berlusconi. Il premier non ha aspettato il balzo di Susanna Maiolo per accomunarsi a Ratzinger come vittima delle “fabbriche di odio” (che poi con l’incidente nella basilica non c’entravano assolutamente nulla), ma ha deciso scientificamente di appropriarsi del linguaggio natalizio e di usare Benedetto XVI come assist per le proprie campagne. Il Papa parla di “civiltà dell’amore”? . E il Cavaliere propaganda il suo “partito dell’amore”. I pontefici perdonano i propri attentatori? Il premier si è esibito nel perdono di Tartaglia, però con l’avvertenza che sia punito per dare un esempio.

Che non si tratti di improvvisazioni (Berlusconi nel marketing non improvvisa mai) è evidente dalla manovra di inventarsi una letterina di Natale a Benedetto XVI, finita sui giornali esattamente il 24 dicembre, quando i quotidiani andavano in ferie e quindi per altri due giorni i pensierini del Cavaliere sono ripassati tra le mani dei lettori.

Vi si leggono due passaggi fondamentali. L’appropriarsi del “messaggio di pace e fraternità di Cristo”, con annessa polemica sui fautori della “violenza verbale o financo fisica”, e l’assicurazione che i valori cristiani testimoniati dal Papa “sono sempre presenti nell’azione del governo da me presieduto”.

Obiettivo primario del Cavaliere in questa fase politica è di impedire che si realizzi una convergenza delle opposizioni in difesa della legalità repubblicana, come aveva adombrato Casini prima dell’aggressione di Milano al premier.

Per questo motivo – secondo la sua mentalità – Berlusconi pensa di acquistarsi la neutralità benevolente della Chiesa pagando prezzi concreti: il pentimento tardivo di Feltri sul caso Boffo, il recupero in Finanziaria di 130 milioni di euro per le scuole cattoliche, il ricovero forzato in ospedale delle donne che abortiscono con la pillola Ru486, il sabotaggio del testamento biologico. E ora, lo sbandieramento dei “valori cristiani” e l’impegno per la pace sociale proprio mentre Famiglia cristiana lo accusa di non sostenere le famiglie.

Dinanzi a questa offensiva di coinvolgimento, lucidamente studiata, le alte sfere ecclesiastiche si muovono a rimorchio, incapaci di rispondere al quesito se sia utile al bene comune che un primo ministro abbia l’immunità per reati penali totalmente non politici e se risponda all’interesse del Paese una riforma istituzionale, che rafforzi il potere dell’esecutivo indebolendo i contrappesi costituzionali.

Nelle stanze vaticane sembra mancare una visione precisa della fuoriuscita dell’Italia da una crisi morale-istituzionale, che all’estero tutti sanno causata da Berlusconi stesso. Al di là degli appelli generici ad un “clima di intesa”, pronunciati dal pontefice o dal presidente della Cei, la gerarchia ecclesiastica non va.

Rimuovendo dati di fatto incontrovertibili: Berlusconi ha tenuto in casa a stipendio un mafioso, ha frequentato una minorenne mentendo ripetutamente sulle circostanze della conoscenza, l’azienda Fininvest – di cui è dominus – ha corrotto un giudice e per conto del premier è stato pagato un testimone. Quando il pontefice nei discorsi natalizi dichiara che “oggi è la crisi morale, più ancora di quella economica, a ferire l’umanità” diventa paradossale l’assoluta mancanza di giudizio delle istanze ecclesiastiche sulle anomalie italiane.

Nelle settimane passate, precisamente l’11 dicembre, l’Osservatore Romano è giunto addirittura a censurare il comunicato del presidente Napolitano sugli insulti lanciati da Berlusconi al congresso del Partito popolare europeo contro la Corte Costituzionale e i presidenti della Repubblica. Di Napolitano il giornale vaticano ha riportato la preoccupazione, il rammarico e l’appello alla leale collaborazione fra le istituzioni. Ma laddove il presidente della Repubblica aveva parlato di “violento attacco” alle istituzioni di garanzia, l’Osservatore ha cancellato il duro giudizio del capo dello Stato.

È questa neutralità che Berlusconi va inseguendo. E finora la sta ottenendo.
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#2151
Craxi, Letizia Moratti e l'insulto agli elettori - di Peter Gomez

La decisione del sindaco di Milano, Letizia Moratti, di intitolare una via o un parco pubblico a Bettino Craxi è destinata a segnare un'epoca. Potremmo spendere centinaia di parole per ricostruire, con carte e testimonianze alla mano, i molti crimini contro la cosa pubblica commessi dall'ex segretario del Psi, morto latitante in Tunisia. O potremmo ricordare un suo celebre intervento in Parlamento in cui, nel luglio del 1993, lui stesso ammetteva che durante gli Settanta, Ottanta e Novanta si era "diffusa nel paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni una rete di corruttele grandi e piccole", dimenticandosi però di aggiungere come né lui, né gli altri leader politici (spesso a pieno titolo complici del sistema), avessero fatto nulla per cercare d'invertire la rotta.

Ma il punto oggi è un altro. Al di là del contenuto delle sentenze, a Milano, come nel resto d'Italia, una parte rilevante dei cittadini (probabilmente la maggioranza) ritiene Craxi un politico corrotto. E questa pessima reputazione è diffusa anche tra chi considera l'ex segretario del garofano uno dei pochi parlamentari italiani di quegli anni dotati di respiro e leadership internazionale.
Per questo la scelta di Letizia Moratti segna un'epoca. Dimostra infatti che le nostre classi dirigenti sono sempre più scollegate dal Paese. E che, anche quando sono al governo, non hanno nessuna intenzione di prendere decisioni condivise, ma preferiscono adottare provvedimenti che dividono, invece che unire. Il fatto poi che una presa di posizione del genere arrivi dal sindaco di una città in cui ancora tutti ricordano come, durante gli anni della Milano da bere, le casse del comune fossero vuote perché ogni appalto pubblico (vedi, ad esempio, la costruzione della metropolitana, in cui il pentapartito si spartiva le mazzette con il Pci) costava il doppio del normale a causa del sovrapprezzo delle tangenti, non può che spaventare.

In Italia, spiega la Banca Mondiale, la corruzione costa ai cittadini circa 50 miliardi di euro l'anno. Una parte importante del denaro dei contribuenti se ne va per foraggiare cacicchi, pseudo imprenditori, burocrazie e amministrazioni (corrotte) di destra e di sinistra. Erigere monumenti, o intitolare vie, a chi è diventato simbolo di questo modo di governare (male), non è insomma solo un insulto all'etica o alla morale. Ma all'intelligenza (e alle tasche) degli elettori.
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#2152
LA FINE DELL'APPARTENENZA di Antonio Padellaro

In politica, l’appartenenza è la partecipazione attiva nei confronti di una comunità. Si “appartiene” soprattutto a sinistra. Per ragioni di carattere storico (il rapporto quasi fideistico che legava la militanza al vecchio Pci). Per la capacità di creare legami e passione (la tessera, la sezione, le primarie come abitudini fortemente radicate). Per un’idea condivisa di solidarietà e di progresso sociale.

Ma se a tutto ciò si evita di dare continuità e sostanza. Se la militanza diventa un polveroso retaggio del passato. Se la passione viene continuamente raffreddata con secchiate di realpolitik. Se dei legami ci si rammenta soltanto al momento di chiedere il voto. Se le sezioni diventano luoghi di apparato dove la discussione latita.

Se il tesseramento è solo pratica di potere di stampo democristiano. Se le primarie vengono considerate una fastidiosa perdita di tempo. Se la scelta dei candidati alle regionali si trasforma in una faida tra cacicchi. Se solidarietà e progresso diventano espressioni obsolete, sostituite dal “dialogo” sul nulla e con nessuno. Se, insomma, la comunità si sgretola e la partecipazione evapora, l’appartenenza perde fatalmente la sua ragione di essere.

Ci si può quindi meravigliare se la sopportazione di un elettore di sinistra, superato un certo limite, cominci a vacillare? E se costui, spazientito da logiche non comprende, metta nel conto la possibilità di non più votare? O di votare per il candidato avverso (come ha scritto Luca Telese con la sua provocazione sulla Polverini)? Certe parole d’ordine non funzionano più. E neppure certi riflessi condizionati.

Turarsi il naso per evitare guai peggiori non lo si può chiedere a nessuno. E a quale scopo poi? Per evitare il peggio? Figuriamoci. Il peggio è già stabilmente al governo di questo Paese. E intende restarci a lungo. Chi poteva fare qualcosa per evitare il peggio non ci sembra proprio esserci riuscito, destinato com’è a restare inchiodato altrettanto stabilmente all’opposizione. I leader del centrosinistra se ne facciano una ragione. Il “pericolo Berlusconi” non funziona più.

Occorre ben altro che una somma di partiti e partitini per costruire quella grande opposizione civile di cui l’Italia ha un disperato bisogno, come ha spiegato Paolo Flores d’Arcais rivolgendosi ad Antonio Di Pietro.

La progressiva scomparsa dell’appartenenza come collante del consenso potrebbe non essere un guaio, se costringesse i leader dell’opposizione a cambiare musica e a occuparsi dei propri elettori. Ma forse chiediamo davvero troppo.
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#2153
E si ricomincia :D

Dice “amore”, ma intende “bordello” di Paolo Farinella

La caduta del papa, per un verso non ci voleva perché poteva oscurare quella di Berlusconi, il quale deve essere «er mejo» sempre. Se anche il papa si mette tra gli «oscuratori», Berlusconi trema e allora si corre subito ai ripari. Assente dai video perché impresentabile o perché in Svizzera a rifarsi calce e malta, diventa onnipresente con lettere, messaggi, telefonate. Poiché siamo a Natale e il papa sfodera il suo armamentario di buoni sentimenti, ecco il lupo fare da contraltare e s’inventa il partito dell’amore, come dire che un puttaniere esalta la verginità consacrata.

Il refrain ossessivo e vomitante è «l’amore vince l’odio», a patto che l’amore sia il suo e l’odio quello degli altri: l’opposizione muta da mesi e ormai da anni, preoccupata solo di autodistruggersi come meglio può, si scopre anche colpevole di «odio», proprio quell’opposizione che fin’ora ha fatto anche l’impossibile per trasformare la provvisorietà di Berlusconi in sistema definitivo, aprendogli le strade anche quelle chiuse pur di non disturbarlo nella sua azione di stupro della Nazione. L’opposizione, «questa» opposizione (tutta) che odia Berlusconi è un ossimoro stridente. Inesistente.

Se si raccogliessero tutti gli insulti di Berlusconi contro i suoi «nemici» categoria da lui assunta, divulgata, affermata, rafforzata, estesa, dilagata, imposta, forse non basterebbe la Treccani e sentire parlare di «amore» uno che la moglie stessa accusa di frequentazioni di minorenni e che si consola con le prostitute e che non ha alcun ritegno nel dire menzogne documentate in sede penale, viene il voltastomaco che nemmeno una cura di supposte di cactus riesce a lenire.

Carfagna in falso bordone

Come una Madonna, sulla grotta della politichetta appare la pulzella di Salerno, la vergine intemerata nonché ministra per intimi meriti di vicinanza al capo, donna Mara Carfagna che sale in cattedra non per spogliarsi e mostrare le sue abbondanze al popolo guardone, ma per denudare l’amore per la politica che «è amore, è passione … magari facessimo insieme le riforme con amore» (Repubblica, 28-12-2009, p. 13). Lei ha imparato questi ideali posando sul cubo. Per la cronaca: la ministra aveva preparato una legge che colpiva i clienti delle prostitute, ma il giorno prima si scopre che il suo capo passava la notte, più di una notte, con prostitute a lauto e diversificato pagamento. Vorremmo chiederle se è questo l’amore che ha in testa e dove è finito il suo disegno di legge. O ci vuole un «lodo» che dichiari Berlusconi insindacabile anche se va a prostitute?

A seguire, Berlusconi colpito sulla via dell’amore da un colpo di duomo che gli ha deformato i connotati, scrive al papa che ormai considera suo collega e compagno di banco e gli dice innocente innocentino che «i principi cristiani sono al centro dell’azione del governo da me presieduto». Caspita! Nessuno se n’era accorto: i principi cristiani sono «al centro» come lo scudo fiscale che grida vendetta contro la morale cattolica; come la legge sugli immigrati che calpesta non solo l’etica cristiana, ma anche la natura stessa del diritto sia civile che canonico oltre la dottrina sociale della Chiesa; come la sua protervia di considerarsi il Messia e quindi un modello del popolo che lo vuole puttaniere, ladro, corrotto, corruttore, distruttore delle istituzioni di garanzia. Certo, nessuno ne dubita che i principi cristiani della corruzione di giudici e di testimoni siano al centro dell’azione del governo; così come tutti siamo certi che i principi cristiani della bugia istituzionalizzata, della falsità e del furto, della collusione con la mafia, del mantenimento diretto di un mafioso dentro casa sua (pura carità cristiana) siano al centro del suo governo. Il quale governo non fa altro che occuparsi della centralità dei principi cristiani che esigono di salvare il delinquente da qualsiasi incursione giudiziaria e da qualsiasi tribunale.

Il silenzio armonico dei vescovi e del Vaticano


In tutto questo scoppio improvviso di amore libero e a pagamento, colpisce la reazione del mondo clericale, sia vaticano che nei paraggi della Cei. Per mesi e mesi hanno taciuto su tutte le malefatte e immoralità dell’amante dell’amore e le timide dichiarazioni, dopo la protesta del popolo, sono state tutte generiche, buone per ogni minestra e stagione, attente e calibrate a non pronunciare mai il nome in omaggio al 1° comandamento: «Non nominare invano il nome di Berlusconi». All’improvviso, il giorno stesso del colpo di duomo, il comunicato ufficiale presenta la solidarietà «istituzionale ecclesiastica» non in modo generico, ma con nome cognome e indirizzo: «Solidarietà al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi». Oh, cribbio! allora sanno che c’è e sanno anche chi è! Se fossero stati coerenti con le dichiarazioni estive, avrebbero dovuto dire: «Solidarietà a tutti coloro che in un modo o nell’altro sono colpiti da qualche duomo di Milano o altro edificio religioso, che volando colpisce il volto di qualche autorità»: in questo modo in futuro avrebbero potuto riciclarla, senza dovere nemmeno cambiare il nome.

Di fronte al magnaccia dell’amore (a pagamento) che ha trasformato l’Italia in un ring di rissa permanente, la suprema autorità ecclesiastica non trova altro da fare che un sorrisetto di circostanza, trovandosi spazzata perché il lestofante ha ventilato sotto il loro naso un assegno di 130 mln di euro, dicendo espressamente che la loro provenienza è delinquenziale perché sono presi dal 5% della tassazione dello scudo fiscale. Se i vescovi dicono che lo scudo fiscale è immorale, addio 130 mln alle scuole cattoliche; se non lo dicono incassano i soldi, ma vengono meno ai loro stessi principi cristiani che stanno al centro del governo perché sono scappati anche dalla periferia ecclesiastica. Berlusconi sta manovrando la gerarchia, la quale si lascia manovrare abbondantemente e liberamente: la tiene in pugno con promesse equivoche. La Cei e il Vaticano potranno forse incassare alcune leggi «pro tempore», come il testamento biologico, le coppie di fatto, la RU846. Vittorie di Pirro che verranno spazzate via sia dalla prassi che dal tempo, ma lasceranno conseguenze difficilmente insanabili nel tessuto della Chiesa sempre più scismatica, sempre più frantumata per l’azione diretta dei Vescovi e del vaticano che appaiono come sono al soldo di un uomo immorale, indegno, mafioso, corrotto e corruttore. Verranno giorni e non sono lontani, in cui il conto da pagare sarà salato, e i tralci secchi verranno tagliati e gettati nel fuoco perché inutili, perché deleteri.

Avremmo voluto che in questi giorni natalizi, dopo le esternazioni blasfeme di un uomo malato e non «compos sui», che il papa, o almanco il segretario di Stato (campa cavallo!) o il presidente della Cei che ancora mantiene una parvenza di moralità personale, rimandassero al mittente le annessioni indebiti e gli dicessero: «Sig. Presidente del Consiglio, le consigliamo di tacere e di dedicarsi alla restaurazione del suo cerone, lasci stare i principi cristiani, piuttosto li viva e ne dia l’esempio personale; non proclami sentimenti più grandi di lei, di cui è incapace di capirne la portata; faccia un servizio al Paese: si dimetta e si faccia curare in una clinica, magari la stessa dove è stata portata la ragazza svizzera che ha fatto cadere il papa». Mi auguro un sussulto di dignità, me lo auguro quasi per fare coraggio a me stesso, sapendo che da quello orecchio la sordità è totale e assoluta.

Don Gelmini: strage di cuori


Sull’orizzonte all’improvviso come un colpo di fulmini appare anche don Gelmini, che aveva chiesto la riduzione allo stato laicale per non essere inquisito dal Vaticano di abusi sessuali sugli assistiti nella sua comunità. Quest’uomo in tv grida il suo amore a Berlusconi: «siamo innamorati di te». Mamma mia, una dichiarazione così ufficiale e pubblica mette in imbarazzo anche il Padre eterno che infatti, dicono le cronache, si è girato dall’altra parte e pare che abbia detto all’angelo che gli stava accanto: «In tutta la mia onesta carriera, mai nulla di ciò ho sentito e ora mi tocca anche ascoltare due cretini che amoreggiano in pubblico dopo che hanno fottuto come gli è parso. Quasi quasi li fulmino con un colpo solo» (poi è saltata la corrente e non se n’è fatto niente). «Abyssus abyssum invocat» (Sal 42/41,8 ) e più abisso di così neppure è immaginabile.

La maledizione incombente


Dulcis in fundo: si apprende che Piersilvio sta per avere un maschietto e lo chiamerà Silvio per cui scordiamoci la velleità di un desiderio astratto: Silvio Berlusconi continuerà a esserci. Povero (si fa per dire) figliolo con un nome così il minimo che gli possa capitare è quello di somigliare al nonno: in questo caso mi auguro che lo curino fin da piccolo, perché gli adulti si guastano da bambini: dal mattino si vede il buon giorno. Auguri al pargolo, ma auguro al prete che lo battezzerà (se lo battezzeranno) di usare l’acqua di Lourdes in modo preventivo e speriamo che la Madonna abbia pietà di un condannato fin dalla nascita. Certo che il padre e la madre sono dei buontemponi che amano in modo esclusivo il figlioletto. Già, anch’essi sono inscritti al partito dell’amore, purché sia sempre a pagamento.

Corre voce alla voce B. Craxi


Corre voce che si voglia celebrare il decennale di Bettino Craxi in pompa magna con celebrazioni ufficiali alla presenza di «autorità civili, militari e religiose». Si dice che anche il Presidente della Repubblica sia stato arruolato per l’occasione. Che facciano quello che vogliano, purché non si omettano alcune cosette ormai definitive: a) fu un ladro per sua stessa ammissione in parlamento; b) fuggì all’estero per non essere processato e quindi fu giudicato in contumacia; c) ebbe tutte le garanzie costituzionali e in 3° grado di giudizio (Cassazione) fu dichiarato colpevole e condannato; d) non si sottomise alla legge, ma preferì morire contumace. Tecnicamente si dice che sia un delinquente. Per la legge italiana è un delinquente contumace, la cui pena si è estinta solo per morte sopraggiunta. e) il suo successore ed erede in politica e in malaffare di Stato, di mafia e di delinquenza è Silvio Berlusconi che ha fatto onore al suo padre e maestro.

Sapremo chi sono i «cattivi maestri» dai partecipanti alle celebrazioni: chi inneggia un delinquente; chi lo reintegra senza averne l’autorità, chi ne prosegue l’azione si mostrerà per quello che è: degno discepolo di Craxi Benedetto, in arte Bettino, di fatto ladro e corruttore di Stato. Mi auguro di non vedere alcuna veste nera di prete o fascia rossa di vescovi o berretti cardinalizi nei dintorni perché sarebbe la degradazione senza fine e l’autorizzazione a tutti di delinquere e di corrompere e lasciarsi corrompere a piacimento. Logicamente in nome della Legalità. Come sempre.

Vi auguro

Vi auguro un anno nuovo di ritorno tranquillo allo spirito e alla lettera della Costituzione, senza Berlusconi, né Carfagna da Salerno e compari e compare, né Bersani da Piacenza, né Di Pietro da Montenero: vi auguro un’Italia vuota di pupi e di papi, ma piena di gente vera e onesta, libera e lavoratrice.
Un pensiero particolare a tutte le donne e gli uomini che sono costretti a stare sui tetti per difendere il loro diritto al lavoro; alle famiglie con portatori di handicap, al 17% delle famiglie che non arrivano alla fine del mese, a tutti voi che sperate nella speranza. Una cosa è certa: noi non demorderemo e non ci stancheremo di impegnarci per risollevare le sorti del nostro Paese. Buon anno 2010.
Immagine

#2154
:lol: grande ART!!

e x ben inaugurare il nuovo decennio... :wink
:
Non so se ho risposto alla domanda di Massimo D'Alema: “ quali sarebbero, in tutti questi anni, gli accordi sottobanco che avremmo fatto con Berlusconi? Sarei curioso di sentire l'elenco!”. Credo che se il centrosinistra fosse stato per un solo giorno antiberlusconiano, come viene accusato di essere stato per quindici anni, Berlusconi non sarebbe più in politica, sarebbe stato dichiarato ineleggibile, gli sarebbero state tolte le televisioni e non in base a leggi comuniste o estremiste, ma in base a leggi liberali che già esistono: legge del 57 e sentenza della Corte Costituzionale 94 /2002. Il fatto che non si sia voluto fare neanche il minimo dimostra non solo che l'antiberlusconismo nel palazzo, a parte Di Pietro e pochi intimi, non è mai esistito, ma che il problema in Italia è proprio il centrosinistra berlusconiano o berlusconizzato e questo spiega per quale motivo ancora una volta, non essendoci noi liberati e non riuscendo mai a liberarci della classe politica che ci ammorba da trenta anni a questa parte, siamo costretti a rivivere continuamente ogni giorno la stessa scena e oggi abbiamo nuovamente Violante, abbiamo di nuovo D'Alema, abbiamo di nuovo Berlusconi, che rifanno le stesse cose che hanno fatto per quindici anni e che tentano anche di negarle, quando ormai li si vede a occhio nudo dalle facce, dagli ammiccamenti che cosa stanno facendo e che cosa vorrebbero fare. Ecco perché penso che, per liberarci del berlusconismo e di Berlusconi, non ci si possa concentrare solo sulla figura di Berlusconi, ma anche di quegli altri che, in questi anni, gliele hanno date tutte vinte e ecco perché, dopo il “ no Berlusconi day”, penso che abbia ragione Pietro Rica quando, per il 6 febbraio a Milano, propone di tenere un “ no D'Alema day”, magari più piccolo, magari più circoscritto, ma sarebbe un segnale, perché i due si tengono su reciprocamente come le due carte che stanno in piedi sul tavolo fino a quando non ne cade una e, dopodichè, cade anche l'altra. Ricordatevi quel detto di Petrolini che, quando un contestatore, dal loggione lo fischiava durante i suoi spettacoli, lo fischiava una volta, lo interrompeva la seconda e lo interrompeva la terza, a un certo punto Petrolini alzò gli occhi e disse “ io non ce l'ho con te, ce l'ho con il tuo vicino, che non ti ha ancora buttato di sotto!”.
Passate parola e buon anno
!
http://www.voglioscendere.ilcannocchial ... irett.html
omnia munda mundis

#2155
Accordo milionario per 24 milioni di fiale, ma ne sono state utilizzate meno di un milione

Topo Gigio è depresso. Ce l’aveva messa tutta, lui, a convincere gli italiani che dovevano vaccinarsi. Ma quelli niente. E così, dei 24 milioni di vaccini acquistati dall’Italia, finora ne sono stati utilizzati solo 840.000. Gli altri ventitré milioni si stanno accumulando nei centri di stoccaggio.

Una spesa di 184 milioni di euro andata, almeno per ora, in fumo. Anzi, nelle tasche della Novartis, la multinazionale che ha prodotto il farmaco. E con cui il governo ha un rapporto stretto, che risale sin dal 2004. È l’anno dell’aviaria, un’ influenza che non colpisce l’Italia, ma che mette in agitazione il secondo governo Berlusconi: preoccupato per una pandemia che fino ad allora non c’è mai stata e forse non ci sarà mai, decide che bisogna prendere precauzioni. E di stipulare dei contratti che riconoscano allo Stato italiano un diritto di prelazione sulla produzione futura di vaccini.

Un paradosso: io governo ti pago ora affinché in caso di emergenza tu faccia il tuo interesse, ossia vendere a me i farmaci.Neanche due mesi dopo, il ministero chiama a raccolta attorno a un tavolo cinque aziende, che mettono sul piatto le loro proposte di contratto. Il ministero ne sceglie tre: tra queste quella della Chiron, una azienda senese specializzata in vaccini che pochi mesi dopo verrà acquisita dalla Novartis.

A quella seduta partecipa anche Reinhard Gluck. Allora è il presidente di Etna Biotech, una società siciliana. Anche lui fa la sua proposta. "Quando entrai nella stanza capii subito come sarebbero andate le cose – racconta – e che il mio progetto non sarebbe mai passato. Era evidente che tra i rappresentanti del governo e i senesi ci fosse un rapporto consolidato. Ero terribilmente dispiaciuto".

Anche perché la posta in gioco è alta: sulla base di quei contratti verranno stipulati i successivi in caso di pandemia. Una bella torta per le aziende del farmaco. I tre contratti costano in tutto al governo 6 milioni e mezzo di euro. Oltre a sancire un diritto su un bene futuro di cui il governo potrebbe non godere mai, vengono stipulati in modo carbonaro senza alcuna gara di appalto.

L’accordo più oneroso è quello con la Chiron-Novartis: da solo costa 3 milioni di euro ed è alla base del contratto di fornitura per il vaccino H1N1, stipulato il 21 agosto 2009 tra il governo e la Novartis.
L’accordo del 2005 garantiva al ministero la fornitura in caso di pandemia di 15 milioni di dosi di vaccino entro tre mesi dalla consegna del seme da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità.
Ma nel contratto di quest’anno, che di pubblico ha solo il nome, quella clausola fondamentale scompare. Viene sostituita da tre date di consegna (con le relative forniture) che però nel testo sono oscurate. “Motivi di riservatezza”, commenta il ministero.

L’unica cosa certa è che al momento del solo picco pandemico, a inizi novembre, la richiesta di vaccino è più alta dell’offerta. Il contratto, come segnala subito la Corte dei Conti, è totalmente sbilanciato a favore della multinazionale: in caso di mancata consegna nei tempi prestabiliti, per esempio, non sono previste multe o penalità per la Novartis.
Altro punto critico: se l’azienda non avesse ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio del farmaco, il governo avrebbe dovuto comunque corrisponderle 24 milioni di euro. Una specie di premio per la partecipazione. La Novartis poi è manlevata legalmente, tranne che per difetti di fabbricazione del prodotto.

Il costo del vaccino è piuttosto alto: sette euro e novanta a dose, quando quello di un normale antinfluenzale, che ha le stesse spese di produzione, viene pagato dalle Regioni circa quattro euro. Quattro euro di differenza che non si spiegano solo con i costi di ricerca.
Contratti simili sono stati stipulati in realtà dalla maggior parte dei governi europei, che nella corsa all’accaparramento del vaccino hanno accettato condizioni vessatorie. Eppure si sapeva fin da subito che il virus non era così pericoloso.

A inizio 2009 i membri dell’unità di crisi dell’Oms (alcuni ora sotto inchiesta per presunti conflitti di interesse con le case farmaceutiche) avevano eliminato dalla definizione di pandemia il criterio dell’"alto numero di morti".
E in un batter d’occhio quello che fino ad allora era un normale virus influenzale a bassa mortalità diventò il virus-killer. Con la conseguenza che centinaia di milioni di vaccini ora giacciono nelle celle frigorifere di mezza Europa.

Al di là di quello che dice il neo ministro della Salute Ferruccio Fazio, difficilmente il farmaco, che ha durata di un anno, potrà essere riutilizzato il prossimo inverno, a meno che, evento improbabile, il ceppo non rimanga esattamente lo stesso. Intanto in Italia le Asl cominciano ad avere problemi di stoccaggio. E ancora deve arrivare l’ultima fornitura, prevista per il 31 marzo, quando probabilmente la suina sarà solo una barzelletta.

L’unico a ridere per ora è Ewa Kopzac, Ministro della Sanità polacco, che di vaccino non ne ha comprato neanche uno. In tempi di isteria pandemica disse: "Il nostro Stato è molto saggio, i polacchi sanno distinguere la verità dalla truffa".
Da Il Fatto Quotidiano del 5 gennaio
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#2156
http://www.repubblica.it/politica/2010/ ... i-1864759/
L'ANALISI
L'occasione di Emma
di ADRIANO SOFRI

Ma anche a non voler paventare un esito simile, e a ostentare un'implausibile audacia, restava il messaggio dato a tutti i cittadini: che per trovare un candidato degno il Pd lo debba spostare dalla carica importante che già ricopre. Messaggio inosservato, tale è l'agonia dello spirito pubblico: ma ci si fermi un momento a pensarci, in un paese di sessanta milioni, in regioni di milioni di uomini e donne, e passano per candidabili solo due o tre uomini già intronizzati ? e donne niente.Nel Lazio, Emma Bonino, finora candidata della lista Bonino-Pannella, può diventare la più forte e competente concorrente alla presidenza della Regione. È un passaggio che dipende solo dal Pd, e sarebbe bello che il Pd la facesse dipendere solo da se stesso
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#2157
:wink:
http://antefatto.ilcannocchiale.it/glam ... log=965787 gennaio 2010
di Sara Nicoli

L’esordio è perentorio: "Gianfranco avrebbe fatto meglio a restare a casa sua, in via della Scrofa 39, nel suo partito. Che cosa c’ha guadagnato a svendere il partito a Berlusconi? Nulla, solo di diventare suo subalterno”.
Donna Assunta Almirante, nel giorno dell’Epifania, sfoglia i giornali con rabbia. Ce l’ha con "questa classe politica che sta portando l’Italia ad un livello di degrado morale mai visto perché è incompetente e inadeguata al ruolo". “Sono tutti dei nominati – tuona dal divano del suo appartamento ai Parioli, a Roma – pieni di presunzione e minacciano pure di cambiare la Costituzione come se loro fossero in grado di scriverne una migliore. Ma mi facciano il piacere!"
Siamo senza scampo? Governano i suoi…


"Alt! Diciamo le cose come stanno. Il Pdl è un partito senz’anima. E io mi auguro che Gianfranco se ne renda conto e torni indietro. Deve avere il coraggio di farlo, tanto è chiaro che non potrà essere il successore di Berlusconi e che non avrà mai voce in capitolo; lui è un monarca, comanda solo lui. Gianfranco ha sbagliato a chiudere il partito, doveva fare come la Lega, dare l’appoggio esterno, e questo non gli avrebbe certo impedito di fare il presidente della Camera. Ma con bel altro potere".
omnia munda mundis

#2158
http://antefatto.ilcannocchiale.it/glam ... onista_del

Ma a De Michelis interessano soprattutto gli statisti. Si veda la sua opera, purtroppo l’unica finora pubblicata, Dove andiamo a ballare stasera? Guida a 250 discoteche italiane, Mondadori 1988, un esemplare trattato per diventare statisti, politici e ministri. Craxi ne fu entusiasta e la preferì al socialismo liberale di Norberto Bobbio, un filosofo che gli pareva troppo scomodo e che definì fuori di testa. Forse De Michelis voleva dire un grande statistico: e infatti Craxi i 150 miliardi di introiti illeciti li suddivise con un fine senso della statistica in conti personali sparsi fra Svizzera, Liechtenstein, Caraibi ed estremo oriente, e nel ‘98, quando la Cassazione ne dispose il sequestro, i soldi erano spariti
Craxi la scelse come punto di fuga nel 1994. In quel paese dal 1987, con un colpo di Stato sostenuto dal nostro Sismi, aveva preso il potere un certo Zine El-Abidine Ben Ali, instaurando un regime di terrore dove sparizioni, omicidi e torture erano all’ordine del giorno. Evidentemente a Craxi piaceva, non gli prudevano le mani. Ben Ali, si noti, è "presidente" della Tunisia da 21 anni, perché "ama il suo popolo e ne è riamato", come dice la sua propaganda.
Una strada intitolata a Craxi? Ma che gli diano pure un vialone. Purché l’eventuale via che Ilaria Alpi meriterebbe ne sia a debita distanza. Dove andiamo a ballare stasera? Ma al Senato, tesoro.
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#2159
http://valentini.blogautore.espresso.repubblica.it/
Era la faccia pacchiana e arrogante del craxismo, una sicumera di tipo nuovo, così diversa del felpato esercizio democristiano del potere. Per la prima volta vedevamo in azione sotto i nostri occhi la corte di familiari, vassalli e portaborse di Betttino, traghettati in Cina da un jumbo privato (banalmente, a spese nostre), molto più simili ad un gruppone di nuovi ricchi in gita sociale che ad una delegazione diplomatica.
E già, perché oltre alla moglie, alla figlia Stefania che poi costruirà nel mito di Bettino la sua carriera politica, al figlio Bobo con annessa fidanzata, ad un paio di fedeli segretarie e all’autista Nicola, c’era il misterioso Cornelio Brandini, il compagno di bisbocce milanesi insediato in un ufficio di palazzo Chigi per distrarre il capo. C’era Margherita Boniver e Ludovica Barassi, la compagna d’allora di Claudio Martelli. C’era il fotografo personale Cicconi e l’estroversa Marina Lante della Rovere con l’ultimo marito Carlo Ripa di Meana, si proprio quello che va dichiarando che Craxi era un gigante fra i pigmei.Non contenti di essere in un luogo dove non avevano ragioni per stare, vari di questi allegri convitati indispettivano ogni giorno di più i cinesi con i loro comportamenti improvvidi. In una Cina non ancora aperta ai turisti ramazzavano a prezzi irrisori, nei pochi negozi per stranieri, interi stock di pullover di cachemire e di tagli di stoffe pregiate. Mettevano in crisi il rigido protocollo cinese arrivando in ritardo ai pranzi ufficiali e pretendendo piatti non previsti. Marina Lante aveva provocato un mezzo incidente diplomatico presentandosi con una vertiginosa scollatura, che i cinesi avevano giudicato offensiva per il pubblico decoro. Per non parlare di un altro accompagnatore che era arrivato ad una cerimonia travestito da guardia rossa, come se fosse carnevale.
“ Sono venuto in Cina con Craxi e i suoi cari”, aveva commentato Andreotti con un sorrisetto perfido, rivolgendosi al gruppone dei giornalisti. Ma su tutta questa storia, che pure era al centro delle nostre chiacchiere e delle telefonate alle redazioni italiane, i quotidiani non avevano scritto una sola riga, forse preoccupati di non dispiacere al rampante potere socialista. Ma al ritorno in Italia le inviate dei due settimanali di punta, io stessa e Fiamma Nierenstein, avevamo pubblicato tutto. Ne era nato un breve scandalo, presto dimenticato.
Se ripenso a quel viaggio mi torna in mente l’umiliazione provata di fronte agli sguardi gelidi dei nostri ospiti, la vergogna e l’imbarazzo di essere italiana. E’ quel che mi capita di nuovo oggi, nell’Italia berlusconiana che per molti aspetti si ispira a quel lontano modello. E dove non per caso si vuole fare di Craxi uno statista oltre che un perseguitato.
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#2160
http://gilioli.blogautore.espresso.repu ... cavaliere/
Da una breve lettura dei quotidiani di oggi appare finalmente chiaro su che cosa sarà centrata l’agenda politica nel 2010.

Avete indovinato: su come evitare i processi di Berlusconi.

Dopo aver ricevuto i suoi avvocati e i suoi collaboratori più stretti ad Arcore durante la convalescenza, il premier ha infatti dato il via al Grande Attacco in Tre Mosse, una specie di potentissimo Megazord dei Power Rangers scagliato contro i giudici.

Prima mossa, il Super Lodo Blindato. La prossima settimana viene depositato al Senato il Lodo Alfano Super, cioè la stessa cosa bocciata dalla Consulta tre mesi fa ma ora riproposta come legge costituzionale, quindi non più bocciabile da nessuno. E’ perfino più blindato del precedente, perché vale anche cambiando carica.

Seconda mossa[/b], il Rinvia Udienze All’Infinito. Il 25 gennaio comincia alla Camera la discussione sul “legittimo impedimento”, cioè una leggina in cui starà scritto che fare il premier costituisce di per sé una ragione per non presentarsi alle udienze e quindi rinviarle all’infinito.

Terza mossa, l’Ammazza Processi Totale. Anche questa è una riedizione di un’ipotesi già avanzata, quella sul processo breve. Adesso si chiama “processo certo” e pure questa è un’arma potenziata rispetto alla precedente: infatti riguarderà anche i processi di mafia (che combinazione) e, per evitare dubbi di costituzionalità, potrà essere applicata anche agli imputati recidivi. Dopo due anni e sei mesi, se non è arrivato a sentenza il processo è morto, e ciao a tutti.

Combinato con il Rinvia Udienze All’Infinito, l’Ammazza Processi Totale è un’arma finale talmente potente da rendere quasi superfluo il Super Lodo Blindato, ma siccome nella vita non si sa mai il premier vuole fare passare tutt’e tre.

Tutto ciò sarebbe perfino divertente se non fosse grottesco: dopo il gran parlare a fine anno delle radiose «riforme di cui ha bisogno il paese», al momento di mettere le carte sul tavolo le riforme sono bell’e pronte per essere approvate: tutte e tre, una più ad personam dell’altra.
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