L’infelice scelta di Franco Marini, personalità rispettabile ma lontanissima da ogni ideale di cambiamento, soggiacendo alle preferenze di Berlusconi e a logori patti interni alla nomenclatura ex-Pci-ex-Dc, calpestando tutto ciò che di nuovo è fiorito dentro e fuori al partito, ignorando nomi comunque più significativi come Emma Bonino e/o Stefano Rodotà, a mio parere sancisce la fine ingloriosa della leadership di Bersani. Che avrebbe fatto meglio a dimettersi il giorno dopo le elezioni perdute malamente.
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Il Pd, almeno questo Pd, è morto stanotte in un teatro a due passi da Montecitorio da cui Bersani non è apparentemente mai uscito – e se lo ha fatto, è stato da una porta posteriore.
E’ morto di stupidità, soprattutto, più ancora che di linea politica: e infatti Renzi, che forse è moderato ma non sciocco, non ne ha avallato l’eutanasia.
E’ morto con le facce irridenti e perfino spavalde di quelli che uscivano dal Capranica – i Boccia, i Misiani – che probabilmente neppure capivano la follia che avevano appena commesso e quanto questa – fra non molto – impatterà sulla loro ‘ditta’.
E’ morto con Chiara Geloni, la pupilla del segretario, che twittava frasi surreali tipo «Marini uno di noi» o «sarà un grande successo politico».
E’ morto con Stefano Fassina – sì, quello che lì dentro faceva la parte del poliziotto buono – che si schierava con Marini perché «mia cognata che lavora alla posta e mio cognato che fa l’elettrauto non sanno chi è Rodotà», mentre «Franco è in grado di ricostruire una connessione sentimentale con il paese». Sentimentale, capito?
E’ morto in modo goffo, soprattutto: goffo Bersani un mese fa nelle sue profferte al M5S, ancora più goffi oggi lui e i suoi 222 nell’arroccarsi su un emblema del più chiuso establishment, sperando di autoperpetuarsi ancora un po’ e chissenfrega degli elettori, del Quirinale, del Paese.
E’ morto di stupidita, dopo una vita nemmeno tanto lunga né gloriosa. Dispiace per quelli che ci hanno creduto, non per quelli che l’hanno posseduto
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