La giornata del tempo sospeso dice, da principio, due cose chiarissime: che l'Italia è stanca, stanchissima. Rabbiosa. La stanchezza e la rabbia sono i sentimenti che hanno animato i vincitori: i primi, quelli che non sono andati a votare. Uno su tre: una percentuale da malato grave, la democrazia italiana deve essere curata, ha la febbre alta. Gli italiani stanchi dei pasticci, delle buchi e delle toppe, delle troppe parole indecifrabili sono rimasti a casa.
Quelli che hanno votato erano, in maggioranza, animati dalla rabbia.
Hanno vinto i partiti con la voce roca e la schiuma alla bocca, la Lega a destra, un trionfo assoluto, il neonato partito di Beppe Grillo che con percentuali dal 3 al 7 per cento - altissime, per un debuttante - conferma quel che sappiamo: urlare «tutti ladri tutti in galera» è un abito ampio e comodo, una taglia unica che si adatta a tutte le taglie e che è persino sostenuto da ragioni valide, documentate, condivisibili: tuttavia nel meccanismo della politica - di questa politica - finisce per fare il gioco dell'avversario, sempre. È funzionale al rafforzamento della destra, sempre. Dalla destra nasce, in verbale opposizione, e della forza della destra vive, in sostanziale alleanza. Mentre scriviamo in Piemonte la partita si gioca su una manciata di voti: il partito di Grillo è al 4 per cento e certamente non sarebbero stati tutti voti per il centrosinistra, ovvio che no. C'era di mezzo il no-Tav, importante discrimine. Però la manciata utile, quella sì, quella il grillismo l'ha portata via. Anche a Di Pietro, che regge e in qualche regione cresce ma non abbastanza da far gridare al trionfo. Ed è un voto di rabbia - la «rabbia giusta», diceva il poeta che vi abbiamo proposto un paio di giorni fa, quella che si chiama indignazione - la bella vittoria di Nichi Vendola in Puglia. Netta, pulita. Contro i pronostici dei professionisti della politica, contro i calcoli e le convenienze. Un voto di gente giovane, anche giovanissima, che chiede coraggio, visione, rinnovamento. Che ha voglia di vedere la luna.
Viceversa si arenano i candidati indicati secondo la logica, appunto, del calcolo e del male minore
. La Campania e la Calabria sono perse così: per difetto di coraggio, a sinistra, e per la consueta spregiudicatezza della destra. Che la destra vinca nelle due regioni a più alto tasso di criminalità organizzata, le regioni dove neppure una riunione di condominio si decide senza l'appoggio del capoclan, è un fatto oggettivo. La vicenda Di Girolamo è dell'altro ieri.
Nessuno è così ingenuo da pensare che i padroni del territorio al momento delle elezioni si distraggano. Proprio per questo bisogna provare a batterli su un altro terreno: con la promessa di una rifondazione, in assoluta discontinuità col passato. Con un gesto rivoluzionario e pazienza se per vincere davvero ci vorrà tempo. L'importante è seminare. Intendiamoci: Vincenzo De Luca ha avuto un risultato personale eccellente considerato che correva contro tutti, in Campania, anche contro una buona parte del suo schieramento. Non è bastato, tuttavia, a tacitare chi nella terra dei casalesi indicava De Luca come un malfattore né a convincere chi ha pensato fosse assai più conveniente restare sul terreno dei poteri reali, i veri potenti di quella terra i cui nomi e cognomi sono noti a chi legga Saviano:
risulta eletto in Campania Caldoro, un volto che neppure da ministro abbiamo imparato a riconoscere nelle foto.
Non si potrà certo dire che sia stata l'affermazione di un carisma, di una leadership, di una personalità trascinante. No, ecco: questo no. Così pure Loiero paga il prezzo, salato probabilmente oltre le sue stesse previsioni, della stanchezza di un elettorato arrabbiato, confuso e desideroso di un rinnovamento che non è venuto.Detto questo non si può non ricordare che solo due mesi fa il centrodestra puntava all'11 a 2 e gridava ai quattro venti che avrebbe fatto cappotto.
Viceversa sono nette e belle le vittorie del centrosinistra in Toscana, Umbria, Emilia, Liguria, Marche e Basilicata, della Puglia si è detto. È perso il Sud, sarà un lavoro non da poco in assenza di rinnovamento profondo.
È perso il Nord, dove vince la Lega dalla Francia all'Istria: uno stato nello Stato. Una mina, questa, che può cambiare nell'arco di pochissimi mesi i connotati del Pdl. Bossi azionista di riferimento, Fini fuori dai giochi. Dov'è An, in queste elezioni? Scomparsa. E l'elettorato di Fini, scomparso davvero anche quello? Sono tutti diventati leghisti e forzisti gli eredi della destra storica italiana? È questa l'incognita dei prossimi mesi: per il destino del Pdl - "il pareggio di Pirro" - e dell'Italia. Da una diaspora tra Fini e Berlusconi, davvero probabile ancorché non risolutiva, si ridisegnerà la geografia politica del Paese.
E poi c'è il
Lazio, dove il testa a testa tra Bonino e Polverini racconta un'altra storia davvero interessante: una regione che all'indomani delle dimissioni di Marrazzo il centrosinistra dava per perduta. Dove il Pdl ha giocato una battaglia che, diciamo, non ha badato a spese in ogni senso. Dove Emma Bonino si è autocandidata, poi sostenuta in forza della sua obiettiva forza, non smentita dai fatti. Anche qui: è arrivato sul filo di lana il coraggio. Il cambiamento. La capacità di rinnovare.
Dicevamo, si sentiva nell'aria: il vento sta cambiando. Sta cambiando, sì. Il vento poi deve essere aiutato, a volte. Dopo le europee c'era bonaccia, le previsioni pessime. Di una sconfitta su tutta la linea. Nelle ultime settimane - come spesso capita - il centrosinistra si è ritrovato alla vigilia del voto: una certa brezza, un soffio di maestrale. C'è ed è reale. Bisognerebbe sostenerlo, adesso. Provare a mantenere la rotta, come chi va per mare, e correggerla sulla base dei risultati al primo giro di boa. Con lo stesso spirito degli ultimi giorni, che duri quanto serve e quanto basta.
Perché se no, se da domani ricominceranno le accuse reciproche, il destino che ci aspetta, con certezza, è la dinastia dei Bossi al potere. Il padre al comando, il figlio la Trota - quello tre volte bocciato agli esami - ministro. Dell'Istruzione, come una laurea ad honorem.
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