#1491
da Cla'
Lo aveva già fatto per i matrimoni dei figli. Anche adesso, ogni volta che gli nasce un nipotino nuovo scrive un pezzo che trovo sempre formidabile.
Lo copio qui, per qualcuna è azzeccato:
Nel negozio delle cicogne
di Vittorio Zucconi
È stata Anna Cecilia, quella di due anni e mezzo con una lingua che potrebbe avvolgersi attorno al collo e farci il nodo come le sciarpine, a inquadrare subito la situazione “Ho paura” ha detto la mia nipotina quando ha visto la madre sul letto di ospedale con gli aghi nel braccio e quegli schermi accanto attraversati da serpentelli luminosi. Ed è corsa a nascondere la testa contro le gambe della nonna più vicina per non vedere. Gli adulti fanno finta di razionalizzare. Credono di capire e di sapere, e devono consolare i bambini, ma in ospedale, qualsiasi ospedale, abbiamo tutti paura come Anna Cecilia, qualunque sia il motivo per il quale ci entriamo, anche se per la festa più bella, la nascita. L’udito si fa acutissimo, cogliendo ogni fruscio come un segnale fausto o infausto. Una porta che sbatte è un presagio e se qualcuno corre lontano, corre per noi, come la famosa campana.
L’occhio coglie dettagli, espressioni, cerca di leggere nello sguardo aggrondato dell’infermiera che legge i serpentelli luminosi indizi nefasti, anche se quella donna sta semplicemente chiedendosi se abbia chiuso la porta di casa uscendo alla mattina e il medico che borbotta e stringe le labbra palpando sta in realtà ancora pensando furioso a quella disgraziata della figlia che è rientrata a notte fonda. In ospedale siamo tutti cani dal veterinario, tremebondi e mansueti, con il naso secco. Si cerca di tenere allegri i cani, di lisciare la gatta con il pelo diritto, di spiegare ai nipotini che quella stanza così inutilmente gaia, con la televisione sintonizzata su due idioti che si parlano addosso, le riproduzioni appese al muro, i fiori sul davanzale, è un luogo buono, dal quale si esce meglio di come ci si è entrati, evitando di menzionare il fatto che non sempre è vero. E quel pallone che gonfia il lenzuolo non è una malattia, ma un bambino come tutti siamo stati, perché grazie al cielo almeno le storie delle cicogne, dei cavoli o dei misteriosi “negozi” dove si vanno a comperare i bebè, ai bambini di oggi vengono risparmiate, pur senza entrare nei dettagli di che cosa tecnicamente abbia provocato quel gonfiore.
Ma Anna continuava ad avere paura, la lingua a sciarpa le si era seccata. Almeno la gamba di un nonno, di una nonna, del padre, doveva sempre essere a portata di manina. Di solito, una insaziabile abbracciona, baciona, coccolona, rifiutava di avvicinarsi al letto, di toccare la madre, nonostante le rassicurazioni del fratello che, dall’alto dei cinque anni e della sua consumata esperienza di ostetrico, cercava di spiegarle, con molte “esse” ancora “shibilanti”, che tra poco, da quel panettone sotto il lenzuolo, sarebbe uscito un altro fratello o sorella. Anna non ne voleva sapere. Al momento culminante, quando un signore allampanato dall’aria allegra e una robusta assistente con braccia da culturista sono arrivati per cacciare tutti fuori, Anna sembrava sollevata, contenta di non dovere più vedere la madre, il sole del suo piccolo universo, in quel luogo di paura, immersa in quegli odori inquietanti.
Soltanto un’ora dopo, quando ha visto una coniglietta che tentava di aprire gli occhietti ancora gonfi e cisposi e di inghiottirsi per intero il pollice grande come un cerino, si è calmata.
Ha voluto entrare nel letto, accoccolarsi di fianco alla madre, metterla subito di cattivo umore chiedendole come mai il pancione non si fosse istantaneamente sgonfiato (“ci vuole tempo, carina” le ha sospirato lei) sfiorare con la mano la papalina di lana da scialpinismo che qui mettono subito in testa ai neonati, scoprire come si chiamasse quella cosina dal bellissimo nome più lungo di lei, Julia Elizabeth. Ha ritrovato la lingua e ha fatto l’annuncio ufficiale. “Adesso non ho più paura”, mi ha informato. Il fratello maggiore, l’ostetrico di cinque anni, ha sorriso benevolo. “Non c’era niente da aver paura”, l’ha rimproverata benevolmente. Facile dirlo adesso, dottorino. Anche io, come Anna, avevo paura, ma non avevo gambe di nonni alle quali aggrapparmi, essendo ormai io il nonno.