#903
da BIZET
Cronaca di una difficile normalità facile
Ore 19.30
Prendo la metropolitana a République, poco meno di 200 metri da casa.
A quell’ora è piena all’inverosimile ma aspetto le carrozze meno affollate. Conto le quattro fermate prima di Charonne e, una volta uscito, chiedo all’edicolante dove è la Rue Godefroy Cavaignac.
E’ qui che si trova il ristorante senegalese-antillese dove mi è stato dato l‘appuntamento per l’intervista per JazzMag.
Il gentile signore con viso pakistano mi dice che bisogna attraversare il Boulevard Voltaire sull’altro lato e poi, imboccando la Rue Charonne, bisognerà girare a destra dopo tre strade.
M’incammino a piedi e, poco prima di svoltare, noto un assemblamento di persone e all’angolo con la Rue de Faidherbe una infinità di fiori e di candele.
Mi rendo conto di essere davanti alla Belle Équipe, l’anonimo ristorante che oggi tutti conoscono per i tragici fatti della sera del 13 novembre.
Svolto e, al numero sei di Rue Godefroy Cavaignac, c’è il ristorante africano Waly-Fay.
Fatou Sylla che li lavora da anni ha vissuto tutto ciò che è accaduto quella sera: ha ancora negli occhi i visi degli attentatori e i corpi dei 19 morti che, nella terrace esterna, sono stati investiti dalla furia dei terroristi mentre bevevano una birra o fumavano una sigaretta in compagnia di qualcuno.
A cena si parla di altro, nessun cenno è per ciò che è successo.
Conclusa la serata raggiungo ancora una volta la metro di Charonne passando davanti al luogo del massacro ma non ho il coraggio di fermarmi per fare una foto.
Durante i giorni del mio soggiorno parigino non ne ho presa nessuna e tuttora non mi sento di farlo.
Le pubblicità affisse nel metrò veicolano un luogo di villeggiatura nella Nuova Guinea, una catena di ristoranti dove servono succulente tajine marocchine e uno spettacolo di Sylvie Vartan e Isabelle Mergault.
Decido di scendere a République, una fermata prima di Strasbourg Saint Denis, quella più vicina a casa mia.
La piazza è letteralmente invasa di bianchi gazebo e di camion con grandi satelliti.
Sotto questi telecamere pronte all’uso e una miriade di reporter eleganti o casual, a seconda delle reti, che trasmettono le news sui fatti parigini.
Sembra di essere in una fiera di gastronomia ma invece siamo nel nuovo villaggio dell’informazione planetaria che ha posto le tende nel luogo simbolo di Parigi.
Provo a farmi strada per raggiungere il centro della piazza ma vengo bloccato da un gentile guardiano nero che mi dice <Mi scusi, è in campo e stiamo trasmettendo in diretta>. <Mi scusi lei> gli rispondo altrettanto gentile, e scarto a destra per poter così raggiungere l’epicentro dei pensieri e dei sentimenti.
Li qualcuno accende un lumino o lascia un biglietto.
Un minuto monaco tibetano suona un’altrettanto minuto gong ad intervalli regolari vestito di un cartello con la scritta “pace” in tutte le lingue del mondo.
Molti stanno semplicemente in piedi in silenzio, quando non disturbati dalle fredde luci delle telecamere intente a carpire il dolore dei pensieri.
A pochi metri dall’obelisco-tempio una lapide testimonia la morte di tre combattenti clandestini periti proprio li, il 25 agosto 1944, un’ora prima della liberazione della Capitale.
Torno verso casa nel Boulevard Saint Martin.
Sulla destra il ristorante Le Pachyderme pieno di gente e sulla sinistra, poco prima del negozietto arabo sempre aperto e con la frutta in bella mostra sul marciapiede, il ristorante africano Fouta Djalon con altrettanta gente sorridente che cerca di reinventare una normalità.
Al bar La Petit Porte bevono la birra con musica Raï a tutto volume e dalla mia casa al primo piano del Boulevard Saint Martin percepisco le risa di molti ragazzi e ragazze seduti fuori da Le Marigny.
Questa Parigi è quella che provo a raccontare a mia moglie mentre osservo le luci della città dalla finestra.
Una Parigi non tratteggiata da quel villaggio che soggiorna in Place de la République e che semina l’angoisse in quelli che non sanno cosa è questa città. In coloro che forse non immaginano una grande metropoli con le sue debolezze e i suoi drammi ma, soprattutto, con la sua forza e la sua speranza.
Mia moglie, con aria assonnata, mi chiede di stare attento.
Prometto di essere accorto.
E intanto penso a quelli che, la sera del 13 novembre, bevevano la birra nella terrace della Belle Équipe mentre Fatou preparava gli accras e i deliziosi n’dolé di crevettes.
Stasera lo ha fatto con la stessa passione di sempre ma con un vuoto dentro e ponendosi domande che non hanno risposte.
<Posso fare una foto con voi?> chiede con gli occhi africani che parlano da soli.
Annuiamo dopo una bottiglia di Châteauneuf-du-pape e un gâteau au coco. Ci mettiamo in posa come fosse la prima volta e sorridiamo guardando in macchina.
La vita continua e le foto restano.
A raccontare ciò che siamo e ciò che siamo stati.
Paolo Fresu