Un film drammatico ma consigliatissimo (rivisto in questo periodo, parla dell'Olocausto): veramente toccante.
IL BAMBINO CON IL PIGIAMA A RIGHE
Cosa succede se le carte si mescolano? Se un bambino non sa più cos’è il bene e cos’è il male? Quando si perdono i punti di riferimento?
Il bambino con il pigiama a righe parte da un presupposto, forse scontato, quello dello sguardo innocente di un bambino, uno sguardo che gli adulti mitizzano come privo di costrutti ma che permette una nuova lettura di una delle tragedie del secolo scorso, l’olocausto.
Il film nasce da un romanzo omonimo, di recente pubblicazione, dello scrittore irlandese John Boyne e portato sul grande schermo dalla produzione della Miramax Films, con la sceneggiatura e la regia di Mark Herman. Il regista inglese considera un unico protagonista, Bruno, il figlio di un comandante dell’esercito nazista che svolge il suo compito con quel dovere imposto dalla sua cultura e da una personale cecità.
È una storia con un messaggio importante, in cui un bambino è la figura che ci permette di sperare, perché nonostante le paure si fa prendere della curiosità e dal senso della scoperta e riesce ad andare oltre.
C’è sempre bisogno che qualcuno ci ricordi che la paura dell’altro è solo irrazionale distruzione della stessa identità dell’uomo. Se poi si usa un linguaggio che è facile da capire, come lo sguardo di un bimbo dell’età di otto anni, allora, forse, si riuscirà a discutere di drammi che oggettivamente non si riescono a spiegare.
Se ne la Vita è bella, film di Benigni, era la forza di un padre a guidare la trama, ne Il bambino con il pigiama a righe troviamo un padre, lui però è il cattivo della storia, quella vera che ritroviamo nei manuali di storia e di cui non abbiamo altra memoria, che quella venuta fuori dall’immaginario dello scrittore John Boyne. Lo vedremo annullato di fronte al piccolo Bruno, che si deve rendere conto che il mondo in cui vive non è giusto e che suo padre non sta facendo del bene.
Bruno, Asa Butterfield, sembra essere impermeabile all’indottrinamento e al modello, non proposto ma impartito, a differenza della sorella maggiore che risponde agli input esterni con regolarità, sarà la sensibilità di Bruno o l’eccessiva solitudine, in cui il bambino si trova a vivere per il nuovo incarico del padre, che gli faranno trovare il coraggio di compiere una scelta. Conoscerà Shmuel, un piccolo ebreo polacco, interpretato da Jack Scanlon alla sua prima comparsa sul grande schermo, e lo troverà strano per il numero che porta sul petto, per la sua strana abitudine di indossare sempre “il pigiama”, per la sua fame continua, ma è un bambino e per questo si può fare ciò che si fa con tutti i bambini: giocare!
Li divide una barriera, il filo spinato eretto da una cultura della paura e dell’odio. Quel filo spinato è come uno specchio in cui due bambini nati lo stesso giorno, 15 aprile 1934, si riflettono l’uno nell’altro e che riusciranno a superare sia metaforicamente che fisicamente. La storia è drammatica e non ci riserva un lieto fine, del resto sappiamo benissimo che in un campo di concentramento non c’è mai stata una storia con un risvolto positivo.
Bruno sceglie nonostante i dettami; nonostante la paura sa di poter condividere anche solo una risata, o un panino, con quel bimbo che gli dicono essere neanche un essere umano.
Il messaggio proposto è importante. Il punto di vista di Mark Herman è quello di un bambino: semplice, chiaro e per questo spiazzante.
Non c’è modo di sfuggire ai giudizi della storia, che qui sono netti perché per un bambino non ci sono vie di mezzo, bianco o nero, buono o cattivo. Nessuna rivisitazione storica, solo un giudizio diretto anche se difficile da formulare, perché se Bruno deve imparare a guardare suo padre, noi dobbiamo ricordarci che il genere di cui facciamo parte genera continuamente questo tipo di tragedie.
Dal punto di vista squisitamente tecnico troviamo la fotografia di Banoît Delhomme assolutamente perfetta, le ombre riempiono gli spazi e la semplicità spiega un momento drammatico, anche in questo caso le forme sono nette e precise, senza mezzi termini, proprio come se fosse l’occhio di un bambino a focalizzarle. La sceneggiatura di Hermann è priva di chiaroscuri, palese come deve essere un giudizio, ma forse i grandi lo dimenticano troppo spesso.
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